Nessun uomo è un’isola, poetava John Donne ai primi del ‘600. Una frase che piaceva tanto a Hemingway da metterla in esergo al suo Per chi suona la campana. Siamo tutti sulla stessa barca, per dirla semplice. Nessun uomo è un’isola, ma ci sono isole come uomini. Certe non le fila nessuno, cert’altre nascono con la camiciola. Certune son scogli derelitti emersi a chiara fama, d’altre tutti ne parlano e nessuno le piglia. Vedi Ischia. Tra Capo Miseno e Punta Campanella, tra il golfo di Napoli e quello di Gaeta, se ne sta l’isola grande, a paragone dell’altre. Giganteggia tra i due golfi col pinnacolo dell’Epomèo impennacchiato di nuvoli, volubili quanto una femmina partenopèa. Tra i primi approdi dei coloni greci sulle coste italiche, che a Pitecusa piantarono la vite e l’olivo quando Roma non era che povere capanne di frasche. Già contesa tra Cumani e Tirreni, tra Sanniti e Siracusani che vi costruirono il nucleo della rocca aragonese a picco sul mare, per poi scapparsene, come molti, per i guasti e le bizze dei flutti. Narra il geografo Strabone, rimescolando le carte come spesso gli capitava, che sotto l’isola giaceva il mostruoso Tifone, ivi sepolto nella lotta finale con Zeus, e ogni volta che il mostro si divincolava nell’inutile tentativo di liberarsi erano maremoti e soffioni bollenti.
Ma Tifone se ne sta là, sotto la Sicilia, e ogni volta che l’Etna sbuffa fa sentire il suo grido di dolore per essere stato sconfitto dal padre degli dèi, sfuggito alla prigionìa cui era stato costretto dopo essere stato battuto dal gigante, che con le sue dita serpose toccava Oriente e Occidente. Pitecusa non è così immensa, non è la Trinacria, ma è grande al pari dell’altre isole del golfo. Eppure Capri e Procida hanno avuto i loro genius loci letterari. Le lettere da Capri di Mario Soldati, premio Strega del ‘54, sono un capolavoro assoluto della letteratura italiana. L’isola di Arturo di Elsa Morante non è da meno. Persino il Circeo ha il suo cantore, con le peregrinazioni d’Odisseo. Ischia niente, a eccezione del giallo omonimo di Gianni Mura, modesto tributo del giornalista sportivo scomparso pochi anni fa. Eppure l’isola è stata traversata da gente del calibro di Pasolini e Capote, forse alla ricerca d’altri piaceri rispetto a quelli letterari; dal segaligno Ibsen – che i pescatori chiamavano ‘o fantasma, per le sue solitarie passeggiate all’alba – ad Auden, per non dire d’Ariosto e Boccaccio. Niente, il nulla letterario.
E sì che l’isola si presta, così vasta e misterica. Non la puoi girare a piedi, Ischia, ma devi girarla a piedi. Solo così puoi arrivare negli spersi loci, all’incanto di luoghi quasi miracolosamente ignorati dal turismo di massa. Cogliere l’animus degl’isolani che sotto la scorza del benessere arrivato sui traghetti nell’ultimo cinquantennio celano l’astuzia del marinaio omerico, l’arguzia di Pulcinella, l’anima verace del pezzente millenario. Bellissima l’isola e la sua gente, a tratti vera per chi la sappia e voglia cogliere nella sua essenza, dislavata dall’acque e dall’incuria, dalle slavine e dagli abusi che qui, più che altrove, sono la regola spacciata per obbligo. Ma l’isola resiste. Ai crolli e al tempo, alla sua natura e a quella degli uomini. Alle orde neobarbariche che diuturnamente l’invadono e al suo stesso fato. Tornare sull’isola, tre lustri dopo, è una conferma e una (ri)scoperta.
A piedi bisogna girarla, l’isola. Scendere ai Maronti e a Sorgeto, fare centinaja di scalini passo passo e sperare in uno strapuntino libero da nordamericani e nordici per bruciarsi le terga a mare, tra i bollori e l’onde. Bearsi d’ignoti bianchi calanchi come di lucenti marine. Traversare luoghi da sogno quando la folla è scemata e solo la bruma v’accompagna, gatti ben pasciuti vi guatano sornioni passare. Girare in barchetta, andar per terme, certamente. Magari in quelle che si vogliono romane ed erano già pozze etrusche. Ma salite al gran monte, sfiancatevi sui suoi pendii senza tema di ruzzolare a valle come il fungo di roccia che s’erge dall’acque di Lacco Ameno.
È lì, sulla cima dell’Epomèo dove svernano arditi trattori, su balze che pure le capre disdegnano, che sta l’anima d’Ischia, il suo centro. Dove le pietre d’acqua raccontano una storia ignota ai più, aliena al cancan del bagnasciuga, alle viuzze intasate di traffico. Là, dove leggenda vuole vi sia, come sotto la piramide di Cheope e in Tibet, una porta d’Agartha, il regno di tenebra e fuoco che traversa le viscere della terra, che l’Ischia profonda e misteriosa sta. Ma noi, ora, contentiamoci di far scorrere un po’ di biancolella in vena, gustando l’ottimo coniglio. Abbeveriamoci alla coppa di Nestore, primigenia epigrafe greca d’Occidente, piccolo tesoro custodito nella villa-museo che Visconti voleva fare albergo. Sorridiamo all’isola e ai suoi misteri. Giorno verrà che Ischia avrà il suo cantore.
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