Edito da Skira Raffaello tra gli sterpi. Storia della lettera mai spedita del pittore urbinate a papa Leone X che ha cambiato l’idea di tutela dei beni artistici e architettonici, non solo nella città eterna
Anche una lettera non spedita può lasciare il segno. Al punto che gli storici di chicche e d’anticaglie – come sono, al fondo, tutti gli storici – la chiamano “la lettera”. Così, per antonomasia, dando scontato il resto. E il resto è la missiva, mai spedita epperò giunta (quasi) a segno, che Raffaello Sanzio scrisse, o meglio fece scrivere dal dotto amico Baldassarre Castiglione a Leone X, papa mediceo secondogenito di Lorenzo il Magnifico e tra i più affetti da nepotismo della storia. Di quella missiva, una e trina come la natura divina, Salvatore Settis e Giulia Ammannati – già direttore del Centro ricerche del Getty di Los Angeles e della Normale di Pisa l’uno, docente di paleografia l’altra – si sono dilungati a discernere i fatti e l’antefatti, stratificazione in bozze e sparse versioni, fino a trarne un saggio. Edito da Skira, Raffaello tra gli sterpi – 260 pagine, 28 euro – si legge e appassiona come un romanzo, nel più vasto romanzo dell’arte, ed è stato presentato alle Scuderie del Quirinale, a Roma, a un pubblico più vasto di quanto la canicola romana e l’interesse per un tema di nicchia lasci supporre. Ma andiamo con ordine.
S’era al primo d’agosto 1514, quando papa Leone, fresco di bolla antiluterana, fa vergare al suo scrivano di corte, Pietro Bembo, una “breve” con sui s’affida la direzione della costruenda fabbrica di San Pietro a tre candidati, dopo la morte del Bramante: Giuliano da Sangallo, fra’ Iocundo architecto (al secolo Giovanni Giocondo, frate veronese e tra i più illustri esperti di antichità del tempo) e Raffaello, appunto. È quest’ultimo, ancorché meno ferrato degli altri in architettura e grazie alla morte dell’anziano frate di lì a poco, a gestire in toto la commessa. Con l’imperativo, sono parole del papa, di far presto, più presto che si può: le casse sono vuote e l’eresia luterana preme, già minaccia scisma e a dargli la stura è proprio quella fabbrica senza fondo. L’incarico è chiaro: per fare più in fretta si faccia calce d’ogni monumento, d’ogni marmo in quella immensa cava a cielo aperto che è Roma. Lui, e solo lui, dovrà appurare se qualcosa del pietrame andrà serbato o messo al macero. È dunque un compito distruttivo quello che il papa affida all’urbinate, non certo conservativo.
Raffaello, Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi, 1512
Eppure, da questa lettera d’incarico prende le mosse una certa idea di conservazione delle stesse antichità romane, dei beni culturali in quanto tali, grazie a un mutamento concettuale e di prospettiva che Raffaello va mutuando a fronte di un impegno che lo vede quotidianamente testimone dello scempio che si va facendo dei resti della città antica. Ridotta, farà scrivere nella lettera, “senza ornamenti, quasi ossa d’un corpo senza carne”. Una sensibilità mutuata certo anche dai colloqui avuti col frate veronese. Raffaello, del resto, era uso trascinarsi tra gli sterpi – di qui il riferimento nel titolo – tra ruderi e grotte, come buona parte degli artisti coèvi, per rimirare l’opera degli antichi. L’uso delle grottesche, da lui introdotto, discende da qui. Matura così piano piano, nel pittore-architetto, l’idea d’una lettera al pontefice che lo convinca a salvare quel che resta dell’antica Roma, sottraendola ai guasti dei tagliapietre e d’ogni calcina, dalle grinfie della stessa curia. Anche in grazia della consegna papale, forse solo verbale, di mappare l’Urbe, oltre che di rimettere mano alla cattedrale del principe degli apostoli.
Raffaello, Baldassarre Castiglione, 1513
Per perorare la causa s’affida alla mano, o meglio alla penna del Castiglione, suo dottissimo amico ed esperto di cortigianerie. Il volume racconta dunque i passaggi di questo complesso epistolario che si trascina nel biennio 1519-20 tra i due amici, fino alla prematura morte di Raffaello, nell’aprile di quell’anno. Facendosi, con ciò, affresco storico d’un tempo spazzato via, coi protagonisti, dal sacco di Roma di lì a pochi anni. La lettera, esposta per la prima volta in occasione della mostra al Quirinale nel cinquecentenario di Raffaello, lungamente rimaneggiata, non sarebbe mai giunta sul tavolo del pontefice – sopravvissuto di poco al suo protetto – e, finita negli archivi mantovani di famiglia dell’umanista, sarebbe riemersa e scomparsa, per affiorare di nuovo, come un fiume carsico, in tempi più recenti, divenendo uno dei caposaldi della salvaguardia dei beni pubblici e della tutela artistica. Della bellezza d’una città ridotta sempre più corpo senza manco l’ossa.
Giovanni Riepenhausen, Raffaello raccomanda al papa Leone X la conservazione delle antichità romane, 1833. Sopra: Raffaello, Autoritratto con amico, 1518-20; Rovine e città, dettaglio dalla Madonna del diadema blu, 1511 (particolare della copertina)
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