Dopo sei anni torna il commissario di Fred Vargas con un dolmen e una storia ambientata in Bretagna, scombinata come poche
Sei anni son tanti. Una vita, quasi, soprattutto in letteratura. Uno s’aspetta che dopo tant’anni si ritrovi per le mani un capolavoro, o perlomeno quello che di un autore s’è amato, gli è mancato. Così, quando una come Fred Vargas torna sugli scaffali, sei anni dopo, con l’ultimo nato della saga Adamsberg, uno corre ad acchiapparselo per leggerselo e goderselo tutto. E invece. Sulla pietra, l’ultimo romanzo dedicato al commissario parigino acchiappanuvoli, è un concentrato di difetti dei precedenti, con meno pregi.
Vediamoli, a principiare dal titolo: Sur la dalle, in edizione originale. Sulla pietra, appunto. O meglio, sulla pietra tombale. La pietra, anzi il pietrone in questione che campeggia sulla copertina dell’edizione italiana Einaudi (non nell’originale Flemmarion) è un dolmen. Per l’esattezza il dolmen di Poulnabrone, presso Galway, nella contea di Clare, non distante dalle scogliere di Moher. Bellissimo ed evocativo lo scatto in chiaroscuro di Maurizio Rellini, però con tanta abbondanza di dolmen francesi – circa 4.500 quelli censiti – e in Bretagna in particolare, dov’è ambientata la storia (la stessa parola, dolmen, si vuole d’origine bretone), bisognava sceglierne uno fotografato dallo specialista umbro nell’Irlanda centro occidentale? Ma non è questo il punto. E neppure che il dolmen rivesta nella vicenda un ruolo tutto sommato marginale. Mero luogo fisico in cui le intuizioni poliziesche vengono a galla, dal substrato emotivo e tombale. Ché questo erano i lastroni: monumenti funebri e spazi sacralizzati: ossatura di tumuli funerari dell’età della pietra, scarnificati in bellavista per noi contemporanei. Ma entriamo nella tomba, nel vivo della pietra.
Altra presenza marginale è quella dello zoppo del castello di Comburgo (Combourg, in francese) o meglio del paesello di Louviec, dov’è ambientata la vicenda. Più che marginale, visto che la fantasmatica presenza si svela fin da subito, rivelandosi un mistero da burla. E un personaggio da operetta il discendente di Chateaubriand, gloria locale. L’acume, il genio letterario di Vargas si nutre di due caposaldi. O piedritti, per restare in tema di dolmen. Il primo è la forza letteraria dello svagato commissario, capo dell’Anticrimine parigina, originario dei Pirenei e, va da sé, poliziotto sui generis. Il secondo è dato dai suoi sanguinolenti casi intrisi di personaggi espunti da un immaginario orrorifico, mutuato da leggende locali e spesso ambientati nell’oscura provincia, come in quest’ultimo giallo. La materia storica è ben padroneggiata, tracima in filigrana nella corposità delle storie. Ma la ridondanza risulta dispersiva, come in questo caso, mentre l’arte, anche letteraria, vuole piuttosto scarnificazione; la ricercatezza narrativa, pur presente, paga lo scotto ai limiti intrinseci della traduzione, e la congerie di personaggi che circonda il protagonista paga dazio alla fissità dei ruoli, appiattendoli anche nel mutare di sentimenti e atteggiamenti.
Togli questi caratteri e resta un commissario mezzo superuomo, spalleggiato da una tenentona tutta superdonna, ancorché totalmente asessuata (se è concesso il distinguo sessista in tempi fluidi come i nostri). Resta una storia che è un inguacchio, un regolamento di conti di bande, locali e parigine, che più stonato non si può. L’americanizzazione di un personaggio francese, vien da dire. L’impressione è che sei anni di gestazione abbiano scombinato un bel po’ la storia, fatta di spezzoni che se ne vanno per conto loro e l’autrice fatica a tenere assieme. E veniamo al punto. Vargas, al secolo Frédérique Audouin-Rouzeau, è una celebrità: scrittrice preparatissima, battagliera anche nella vita, come nel caso della sua campagna pro Cesare Battisti, a cui è stata assai legata. Tra le sue tante dichiarazioni, una resta nel cuore. Recita pressappoco così: la banalità del male è assoluta, le mie storie dovrebbero esserlo, ma non lo sono. Non amo il realismo ma il reale. Ecco, forse ci sarebbe bisogno di storie più realistiche perché il loro fascino non ne risenta, deprivandole completamente di senso come nell’ultima. Ché Sulla pietra Adamsberg non risorge.
Sopra: la copertina di Sulla pietra (Einaudi, 464 pagine), particolare
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