C’è un razzo del tutto simile a Lillo – quello dei voli pindarici della primissima infanzia – che sale in un cielo turchese, un bel 30 pittato sulla carlinga e una vampata dal motore che a rigirarla può essere la vampa d’un accendino, fiamma testimone d’ardore e continuità. E una scritta, sotto, che molto dice e ancor più promette: il folle volo continua. Eccola la grafica del programma dell’Argot. Trent’anni d’attività teatrale rievocati nel ciclo Epifanie in uno dei luoghi più ignorati, sventurati e fascinosi della teatreria romana. Quello di Villa Torlonia, voluto nel 1841 da Alessandro Torlonia, il prosciugatore del Fucino, per la fresca sposa Teresa Colonna che mai ne godé, mentalmente inferma, e completato dopo un trentennio. Trent’anni, ancora. Non è facile metterli in cartellone, raccontarli come fa la mostra appena conclusa – e se l’avete persa peggio per voi – allestita da Manuela Giusto, il presente della fotografia di scena della sala capitolina, sulla scia di Delogu e Tommaso Le Pera che l’hanno preceduta nel ritrarre scene e retroscene dell’Argot. Un percorso che ha reso l’idea di quanta acqua e belle firme siano passate dietro le quinte e sul palco di quest’arena che, nel suo piccolo, ha fatto la storia del teatro, non solo romano. Un razzo lanciato nel 1984 da Maurizio Panici con Marco Delogu e Sergio Colabona, ora raccolto dal figlio Tiziano, direttore artistico con Francesco Frangipane. E di quanto “folle”, e lunga, sia ancora la voglia di volare in questo piccolo spazio trasteverino dove transitano ogni anno circa diecimila appassionati della sesta arte. Un cammin di vita, parafrasando il sommo poeta, che ha fatto di questo luogo di ricerca una realtà stabile nel panorama romano.
La stagione al via vede una decina di spettacoli alternarsi sul palco del teatro, a far da volano alle nuove leve autoriali all’insegna dell’innovazione, com’è nel suo spirito. Dieci spettacoli di “lunga tenitura”, per altrettanti mesi, per metà autoproduzioni – un’altra caratteristica dell’Argot, dove le due strutture produzioni e studio tornano a fondersi – e in gran parte inediti. Tra questi il testo d’apertura del 2015, Effimera di Stefano Benni, con la giovane farfalla Dacia D’Acunto a sbattere le sue ali nel mondo, seguito da Nove di Edoardo Erba, dal 10 al 29 novembre, al suo debutto al festival di Todi e mai rappresentato. Dove, diretti da Mauro Avogadro, Massimiliano Franciosa e Claudia Crisafio raccontano in nove spezzoni, microcommedie di poche battute l’una, la surrealtà della vita non solo di coppia.
A dicembre tre autoproduzioni si alternano sul palco: Albania casa mia del giovane autore albanese Aleksandros Memetaj e la regia di Giampiero Rappa, e Mi lascio, di e con Giovanna Mori e la regia del fondatore, Maurizio Panici. Di Tiziano è invece la regia di un classico natalizio, il Canto di Natale di Charles Dickens, al suo quinto anno ma per la prima volta a Roma, adatto a ogni età e per questo presentato anche in matinée e pomeridiane. Il ciclo invernale prosegue con la residenza creativa Prego, poi Angeli di Filippo Gili che ne firma anche la regia, e Nessun luogo è lontano, scritto e diretto ancora da Rappa con Valentina Cenni, Totò Onnis, Giuseppe Tantillo e le musiche di Francesco Bollani. A seguire un omaggio a Carmelo Bene con l’Amleto rivisto da Stefania De Santis, mentre Cechov è protagonista con due spettacoli, Tre sorelle e Zio Vanja, con Gili regista. Chiude la stagione, a maggio, Elena Arvigo con Donna non rieducabile, di Stefano Massimi, “memorandum teatrale” ispirato ai reportage di Anna Politkovskaja, la giornalista newyorkese assassinata nella Russia di Putin quasi dieci anni fa.
Ma non è tutto. Oltre alla cinquantina di gruppi sulle scene in dieci mesi, la stagione vede il festival Shakespeare re-loaded, in aprile, per la celebrazione del quarto centenario della morte del bardo, laboratori di scrittura e musicali e ancora un paio di rassegne. La scena sensibile, curata da Serena Grandicelli sul panorama femminile, e Dominio pubblico officine, dedicata ai giovani, nata dall’omonimo progetto con il teatro dell’Orologio, altra realtà di spicco nel panorama teatrale della capitale. Una città stanca e corrotta, eternamente potente e immobile che fa da scenario all’eterna commedia poco divina e troppo umana, per dirla come i direttori artistici dell’Argot, che da un trentennio ne è uno dei luoghi di messinscena più rappresentativi.
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