Christian ha tutto, o quasi. Un lavoro strepitoso – curatore d’un museo d’arte contemporanea ricavato nientemeno che dall’ex palazzo reale di Stoccolma – una casa di design e una bella macchina, ovvi corollari al suo stato sociale. Non ha una compagna strafica, ma le pollastrelle bendisposte nei suoi confronti non mancano (è pure belloccio e, ça va sans dire, intelligente e interessante). In compenso ha due graziose bambine, passabilmente rompiballe e dissociate come la maggior parte dei coetanei, di cui si occupa col dovuto riguardo nei ritagli di tempo che la vita gli concede. In questo paradiso in terra irrompe, una mattina, un accidente qualsiasi.
Poco più d’una scocciatura, da cui però l’ordinario benessere comincia a screpolarsi, a deragliare quel tanto che basta perché esca dai suoi binari preordinati e perfetti. Come la famiglia – la più alta tragedia dell’umanità dai tempi della caduta di Atlantide – era al centro di Forza maggiore, il primo film (malamente) distribuito in Italia, ispirato anche alla vicenda di Schettino benché girato in montagna, in The square (La piazza) Ruben Östlund si misura col tracollo del mondo individuale e del mondo in sé. Quel belmondo occidentale e borghese fiaccato dalla propria idiozia prima d’essere schiantato dalla follia altrui. E lo sguardo acuto e bizzarro del giovane ma pluripremiato regista svedese – la Svezia, ahinoi – sul tranquillo harakiri d’Occidente non poteva non piacere a Cannes che quel mondo rappresenta, ai giurati e al presidente Pedro Almodovar che l’hanno insignito della palma d’oro.
Sontuoso nei toni dimessi, originale quanto surreale – perciò capace d’oltrepassare la soglia del reale, oltre che di narrarlo – e tecnicamente ineccepibile, The square è un film più che riuscito: geniale. Un’opera che raccontando l’arte e lo strazio del politicamente corretto, i suoi guasti, pone qualche domanda non peregrina. Fin dove può spingersi la libertà dell’arte, o cosa sia l’arte tout court, dove ci catafottiamo con le nostre beate certezze e civiltà. A dirlo l’installazione chiave della mostra che Chris sta curando. Un quadrato luminescente al centro d’una piazza (da cui il titolo). Uno spazio aperto, ma circoscritto dalla luce, che rappresenta “un santuario di fiducia e altruismo, al suo interno tutti condividiamo uguali diritti e doveri”. In quest’oasi di serenità e progresso irrompe con la sua carica letteralmente deflagrante una campagna di marketing virale di sicuro effetto, anche se decisamente controproducente. Così come nel vernissage inaugurale, alla presenza della crème della società svedese, il divertente siparietto dell’uomo primordiale sfugge ai desiderata dei presenti e del curatore, trasformandosi in incubo dove gli azzimati invitati dovranno difendersi dall’ex buon selvaggio.
Metafore, perifrasi del mondo d’oggi visto alla lente della sua punta avanzata, la contemporaneità artistica, per mostrare quanto di selvatico e (poco) salvifico resta dopo aver scartavetrato la patina in superfice, lavato l’ovvietà in profondità. Quanto di reale, sotto l’apparenza, ribolle e deflagra, sobillato dal caso. The square gioca soprattutto sul confronto tra ciò che siamo (che crediamo d’essere) e le trasformazioni dell’essere al tracollo delle sicumere, schiantate dalla casualità. Geniale. Al punto che manco il paro d’ore abbondanti pesano sull’equilibrio del film, dosaggio di gag e banalità. Unico neo, per chi vorrebbe una via di scampo oltre alle riflessioni intelligenti, il finale vuoto più che aperto. Ma in quel vuoto, in quell’assenza di un finale che si rispetti, è il vuoto della fine del mondo che è in noi.
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