Un pittore unico e inqualificabile. Così definisce Jacques Joseph Tissot la curatrice Cyrille Sciama nella mostra romana che porta per la prima volta in Italia l’artista francese. Un personaggio da romanzo, per dirla ancora come lei, assai noto ai suoi tempi ma semisconosciuto in patria e all’estero, eccezion fatta per il mondo anglosassone. L’Inghilterra che fu sua seconda patria e gli Stati Uniti che ne hanno raccolto gran parte del patrimonio artistico, per mezzo d’oculati investitori. Unico e inqualificabile, dunque. Ecco perché.
Nato a Nantes nel 1836 da un commerciante di stoffe e una modista, da cui ricava il gusto per fini trame e tessuti, Tissot si inserisce presto e con successo nel realismo figurativo che già nel 1859 lo porta a essere esposto al Salon del Louvre, benaccolto da critica e pubblico. Mentre a Parigi vagiscono gl’impressionisti, lui se ne frega delle avanguardie e, da amante del bel mondo qual è, ritrae coi suoi tratti dettagliati gli eroi del secolo, figure e figurini della ricca borghesia nei suoi anni d’oro. Ego e fortuna non gli impediscono però d’impegnarsi politicamente. Arruolatosi nella guerra del 1870-71, dopo la schiacciante vittoria dei prussiani resta invischiato nelle vicende della Comune e, da comunardo agée, decide di passare la Manica per scampare alle esecuzioni di massa e guadagnarsi il pane. Già noto al pubblico inglese come fine illustratore – sua una fortunata serie di vignette politiche sul Vanity Fair del tempo – impiega poco a rifarsi una vita e un nome, cambiando il proprio nel più albionico James, con cui è noto ai coèvi e passa ai posteri.
A Londra incontra la donna che gli cambia la vita. Kathleen Newton è una giovanissima cattolica irlandese di buona famiglia ma non ha proprio una vita irreprensibile, con due figli nati fuori dal matrimonio e un divorzio alle spalle. Per i canoni del tempo però è una bellezza e, come nel più classico dei feuilleton ottocenteschi, il pittore se ne innamora perdutamente, facendone la sua musa e modella. Onnipresente nei suoi quadri, la bella Kate è accolta coi figli nella lussuosa dimora londinese di Tissot, per i pochi anni che vivono insieme. Oltre che bella, la ragazza è infatti di salute e fortuna malferma. Malata di tubercolosi, non sopravvive che pochi anni al suo stato: si suicida col laudano nel 1882. Tissot veglia accanto alla sua bara quattro giorni, poi vende la casa all’amico Alma Tadema e rifà al contrario la strada fatta dieci anni prima.
Ma Parigi è cambiata, impazzano gli impressionisti e una pittura come la sua non è più in voga. È l’inizio d’una crisi umana e professionale che sfocia nel mistico e porta Tissot a girovagare per un altro decennio in Terrasanta, illustrando con la vita di Cristo le tappe del suo personale calvario di fede. Tornato in patria, sopravvive un altro decennio a sé stesso, producendo una quantità di tele a soggetto religioso e spesso tenebroso, spegnendosi infine nell’abbazia di Buillon, ai primi del nuovo secolo. Il mondo viaggia sulle note della Belle Epoque e dell’espressionismo, Tissot se ne va preda dei suoi fantasmi e delle sue visioni. Privo di eredi diretti, la polvere del tempo si accumula su di lui e i suoi quadri finché mezzo secolo fa la nipote Jeanne lascia anch’essa questo mondo e il castello di Buillon ricevuto in eredità, e il mondo riscopre l’arte di Tissot. In tre giorni di vendita all’asta le sue opere, snobbate in patria, pigliano i quattro canti ma occorre aspettare ancora un ventennio perché prendano corpo studi critici ed esposizioni post mortem.
L’attuale, al chiostro del Bramante, è suddivisa in nove sezioni tematiche ed è di quelle da non perdere. Dagli inizi parigini alla vita mondana, dai trascorsi londinesi ai temi sacri, fino all’altra sua ossessione per le figure femminili che gli vale l’appellativo di protofemminista presso certa critica, spesso interpretate dalle movenze dell’amata Kate, non c’è pertugio del percorso artistico di Tissot che non sia indagato. Degna di nota l’installazione sonora che lo chiude, punta dolente la mala illuminazione che impedisce di gustare appieno dettagli e sfumature delle opere. Ma guai a vedere nelle sue tele, minute o maestose – anticipate da uno schizzo o un’acquaforte, tecnica di cui era maestro, dal titolo curiosamente sempre diverso dal lavoro finale – un mero virtuoso del reale, rifacitore della dolce vita che fu. No, è nell’occhio strizzato dalla geisha al gaudente europeo, nel gatto e nel cane che fanno baruffa sotto al tavolo, nel petalo che cade dalla brocca dove il figliol prodigo – come lui era e si sentiva – sta reclamando del suo prima di lasciare la casa paterna, che va cercata la cifra pittorica dell’artista. Quell’amore per il particolare che va oltre il dettaglio, supera la scena. E intride la sua pittura realista di un sentimento poetico che sottende altro, esprime senza essere espressionista, s’imprime nell’occhio del guardante lungi da ogni impressionismo. Ecco perché ha ragione Sciama. Tissot resta unico, inqualificabile. Mirabile.
James Tissot, Roma, chiostro del Bramante, fino al 21 febbraio 2016. Info www.chiostrodelbramante.it
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