Tornat Catalunya. Torna indietro, Catalogna. C’era un tempo in cui i tercios dei conquistadores massacravano senza posa i conquistati, nelle Indie e nelle Italie, al grido di Arriba Espana! E c’era un tempo in cui i falangisti facevano altrettanto con i repubblicani, durante una delle più sanguinose guerre civili che hanno dilaniato il suolo europeo. Quella Spagna sprezzante e pezzente, conquistatrice e inquisitrice, imperiale e franchista, è distante dall’oggi, dai suoi travagli disgregatori. Dal pacioso Felipe VI che regna a Madrid come dai furgoni bomba sulla rambla di Barcellona. Per chi guarda alla Catalogna è difficile stare dalla stessa parte della milicia spagnola che manganella studenti e anziani, più facile solidarizzare coi pestati. Se uno vuole lasciare – nazione o famiglia poco importa – ha tutto il diritto di farlo, con buona pace di chi resta. Ma i modi con cui Carles Puigdemont, come i suoi predecessori, soffia sul fuoco della secessione, l’indipendenza proclamata a parole e negata nei (dai) fatti, impongono qualche riflessione fuori dagli steccati. Separarsi è giusto, ma separarsi da che? In nome di cosa?
L’Harry Potter catalano lancia il sasso per poi nascondere la manina, quando s’avvede che le banche fuggono, l’Europa chiude la porta e la maggioranza dei sette milioni e rotti di catalani non è per tagliare il cordone ombelicale con Madrid, alla faccia di un referendum tanto legittimo quanto illegale, privo dei numeri necessari in parlamento e in piazza. Se il ceto politico catalano che spinge sull’acceleratore dell’indipendenza sogna per un paese privo di risorse e produzioni – come il nostro – un futuro di miseria e medio turismo – come il nostro – s’accomodi con chi vorrà seguirlo. A patto d’avere, appunto, i numeri in parlamento e in piazza. E tralasciamo il non marginale aspetto dei 30mila euro – cifra per la quale non si sporcherebbe le mani manco un impiegato al catasto capitolino – versati ai pseudogolpisti dall’Open society di Soros, sempre in prima fila ovunque ci sia da pasturare merda spacciata per progresso.
Per ora l’ex giornalista a capo della Generalitat è il solito apprendista stregone che resuscita forze più potenti di lui, un nazionalismo in voga nel XIX secolo che si credeva estinto, per esserne spazzato via. Non senza essere assunto, nel breve lasso di tempo che separa il sogno dall’illusione, le chiacchiere dai fatti, a paladino dei diritti concussi. Il caso Tsipras, ultimo d’una fitta serie, non insegna nulla. Ma da vecchio (si fa per dire) nazionalcattolico fuori corso Puigdemont può così alzare la posta, un modo forse utile a far guadagnare qualche spicciolo alle casse catalane, anche se un trastullo pericoloso. S’è ficcato in un tunnel da cui sarà difficile uscire senza le ossa rotte e i sogni infranti, allo scadere dell’ultimatum di Madrid. Che non può tollerare manco a parole una Spagna monca, dopo la Catalogna, via via dei Paesi Baschi (che un pedigree d’autonomia lo tengono) e di chiunque vorrà accodarsi, anche in Europa: dagli scozzesi ai corsi, dai sardi agli ex sudditi austriaci del Lombardo-Veneto.
A proposito, il 22 qua si voterà per l’autonomia, nell’ennesimo referendum farlocco costato un’enormità. Dai tempi di Ludovico il Moro i milanesi non hanno nessuna voglia d’autogovernarsi, al massimo d’amministrare i loro dané, e avrebbero ragione da vendere, visto che versano alle casse dello stato – ai parassiti meridionali e ai faccendieri romani, direbbe un leghista doc – 54 miliardi d’introiti, mica spicci. La Catalogna, per dire, appena otto. La Baviera, land straricco d’Europa, solo uno e rotti. E allora perché meneghini e serenissimi, coi loro malpancisti legaioli, sarebbero destrorsi e cattivi e i catalani no, Salvini un becero populista e Puigdemont un paladino del popolo? Misteri di certa sinistra che alla logica preferisce fumisterie e talkshow.
Ai tempi di Gramsci, pensatore al macero, si sarebbe detto che tutto ciò che unisce è di sinistra, tutto ciò che separa non lo è, ma tant’è. Forse chi a sinistra non ha portato il cervello all’ammasso farebbe bene a interrogarsi su chi spinge e a chi conviene davvero la balcanizzazione d’Europa (d’Oriente, del mondo), la regionalizzazione di stati già sovrani e depotenziati da strutture extranazionali, altro che blaterare di libere patrie. Una predica in catalano – lingua soave e bellissima, come Barcellona a paragone della mesta Madrid – nella Sagrada Familia è pittoresca ma già abbastanza straniante, figurarsi una predica in milanese in Duomo. Un poeta catalano, Salvador Espriu, esprimeva il suo anelito di pace in questi versi: Qualsevol guerra desvetllada entre els homes, la mès estranya o grandiosa lluita, es tan sol una guerra civil. Qualsiasi guerra tra gli uomini, la lotta più inutile o grandiosa, è una guerra civile. Tornat, Catalunya. Torna indietro, Catalogna. Prima che qualcuno torni a gridare il contrario, Arriba Espana.
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