Grande riapertura delle Scuderie del Quirinale con la nascita della nazione italica. Rari capolavori raccontano l’Italia romanizzata, alla faccia del paese reale e di popolazioni tuttora ignorate
Lo sguardo è vivido, anche se nell’orbite vuote le cornee sono assenti da un pezzo. La testa si volge di scatto, verso qualcuno o qualcosa, pare sul punto di aprire le labbra enfiate dai colpi, ma si trattiene. Bernoccoli e sbucciature, schizzi di sangue reso col rame sul corpo possente, a riposo dopo l’ennesimo combattimento. Non poteva esserci immagine più appropriata del pugile che apre il catalogo e la mostra Tota Italia alle Scuderie del Quirinale. Vuoi perché il bronzo del IV secolo avanti Cristo che commosse Rodolfo Lanciani al tempo del suo ritrovamento, nel 1885, fu trovato proprio qui, alle pendici del colle, celato con cura da chi voleva salvarne memoria e bellezza. Vuoi perché, suonato e rintronato, forse pure un po’ sordo d’orecchi come denunciano i lobi a broccolo, l’atleta scolpito da Lisippo o forse Apollonio è come l’Italia. Battuta ma non doma. O almeno così vogliono i curatori, il direttore del museo nazionale romano Stépane Verger e Massimo Osanna, promosso dal ministro Franceschini direttore generale dei musei dopo aver rivitalizzato Pompei. E proprio dai musei archeologici sparsi nel Belpaese proviene il corpus in mostra: circa 400 pezzi tra i quali rari capolavori, in parte perduti e recuperati. Come la coppia di grifoni che divora una cerva, ancora del IV secolo: sostegno da tavola di un nobile dauno – o forse sabellico – da Ascoli Satriano, dove Pirro ottenne la sua malfida vittoria sui romani, già al Getty museum di Malibu.
Cimeli arcinoti come il corredo nuziale della cista Ficoroni o l’altare funebre delle menadi danzanti, e meno noti come la stele del guerriero sannita che torna dalla battaglia o il magnifico corredo tombale di due guerrieri melfitani. E ancora, gli ori provenienti dalla necropoli gallica di Montefortino d’Arcevia; i frammenti delle tavole iguvine, pietra miliare di lingua e culti arcaici; il fegato di Piacenza ad uso dell’aruspicina etrusca. Una pletora di capolavori della civiltà italica e poi romana, squinternati nelle sale delle scuderie pittate di un anodino grigio a dare risalto ai reperti, attraverso un percorso in dieci tappe che rievoca i momenti salienti della prima Italia, nell’ottica della romanizzazione della penisola celebrata da Augusto. Dai riti funebri ai culti, dalle lingue ai traffici e al lusso, dalle guerre all’organizzazione della conquista, è il racconto della nascita di una nazione che dal IV secolo giunge all’età imperiale, celebrativo come sarebbe piaciuto al figlioccio adottivo di Cesare.
L’Augusto che pacificò l’Italia ridotta a macerie dopo le guerre civili e sociali. Il pacificatore dell’urbe e dell’orbe che regnò da imperatore e dio senza dirlo né darlo a vedere, memore della fine del patrigno. Che celebrò sé stesso restituendo a una città nata da un’enclave di ladri, assassini e ruffiani nobili natali e dignità imperiale, grazie al mito troiano rinvigorito da Virgilio e alle trovate dei cerimonieri di corte. Il distruttore della repubblica, più ancora del dittatore Cesare, che seppe spacciarsi per restauratore delle virtù della repubblica, da lui ridotta a nome senza corpo né forma, nelle parole di Svetonio.
E proprio dal giuramento di fedeltà che “Tota Italia” fece al nuovo padrone che seppe fare tabula rasa del suo passato e di quello dell’urbe, come d’ogni nemico – compreso il figlioletto di Cesare, Cesarione, amato dal rivale Antonio – parte l’idea della nazione in farsi. Quel giuramento fittizio che Ottaviano, da vecchio, non mancò di ricordare nelle sue memorie. Non ci sono più italici, solo romani, gli faceva eco il greco Strabone. Eccolo, il trave nell’occhio d’una mostra pur notevole che l’Augusto avrebbe amato, al pari di sé. Forse l’aver messo tanta carne al fuoco in occasione del 160esimo dell’unità, del 150esimo di Roma capitale e del 75esimo della repubblica non poteva esimere l’evento dal tono celebrativo, a tratti enfatico. Ma forse sarebbe stata più adatta ai tempi, al paese reale, un po’ più di dialettica, a fronte di tanta ricchezza d’arredi & corredi. Meno enfasi a rappezzare il cupio dissolvi coèvo. L’esito è comunque entusiasmante, l’esposizione da non perdere.
Poi, a voler cercare qualche altra pagliuzza e travicello nell’occhio, è ora che la ricerca archeologica vada oltre le menate della diversità etrusca o della moda celtica. Restituisca dignità e unità ai popoli della penisola, a partire dalla comune lingua scritta della koinè italica, fuori dalla “pax augusta”. E, magari, possa ridare a popolazioni italiche ancora ignorate l’importanza a cui il dato archeologico le sottrae. Il carro sabino da parata del principe d’Ereto, recuperato al Ny Carlsberg Glyptotek museum di Copenaghen ed esposto protempore a palazzo Dosi, a Rieti, a cura della Fondazione Varrone, non avrebbe sfigurato col trapezoforo d’Ascoli, per dirne una, e avrebbe reificato il senso di un’altra Italia, ignota ai più. Quella che si perse a Sentino e non si ritrovò a Corfinio, sempre feracemente antiromana. Forse più vera, certo non meno reale dell’altra cassata, più che nata, sotto il segno di Roma e d’Augusto che si celebra al Quirinale. Fino al 25 luglio, info scuderiequirinale.it.
Galleria fotografica a cura di Nicoletta Zanella
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