Lo spirito è quello d’un ragazzino. Anche quando leva la coppola, a salutare la moltitudine ch’è venuta a omaggiarlo, osannante, lo fa con gesto sbarazzino, quasi a schernirsi d’essere lì. Sotto le volte della basilica ch’era del galantuomo pagano Massenzio, riattata a sua gloria da quel carognone cristiano di Costantino. Tornata a essere tempio di Letterature, l’omonimo festival messo in piedi da Maria Ida Gaeta, e unico tempio di letteratura a Roma, dopo il forfait del ninfeo di Villa Giulia. Comunque lì, tra i ponteggi dell’infinita Metro C, s’è reso l’omaggio alla centesima opera di Andrea Camilleri. O meglio del professore, come pomposamente chiamato dai presenti: Lella Costa in qualità di conduttrice e Renzo Arbore di ospite d’onore della serata. Allietata, si fa per dire, dalle nenie folcloristiche di Oliva Sellerio, figlia dell’Elvira che ha dato i natali letterari al maestro, ripagata con uno strepitoso successo editoriale. Serata goliardica più che letteraria, dunque. Un peccato, amenità a parte, Ché è bellissimo perdersi con l’inventore di Montalbano sul filo dei ricordi d’una vita d’autore, di novantenne dalla memoria ferma anche se la parola a tratti faglia e l’occhio è orbo di vista. Un peccato, dicevamo, perché la serata avrebbe potuto essere un passepartout in grado di penetrare i segreti d’un mondo, una mappatura del percorso che ha raggiunto quota cento. Fatto di stili e registri diversi seppure accomunati da un linguaggio, sorta di lingua poetica e jazzistica – il jazz, grande passione del prof assieme alle sigarette e al whisky, finché se l’è concesso – impasto di siciliano e d’altro. Assurta a vero e proprio registro linguistico, il vigatese o montalbanese.
Non poteva che essere un Montalbano il centesimo libro uscito dalla penna di Camilleri. E, data la sopraggiunta cecità, da Valentina Alferj, l’assistente che ha contribuito alla stesura materiale, e non solo, dell’opera. L’altro capo del filo, il neonato n. 100 – di cui la Costa ha letto un brano, a chiusa della serata – racchiude in sé pregi e difetti della saga. Di questa può dirsi quello che Bruno Ventavoli ha scritto sulla Stampa di Rocco Schiavone, il vicequestore d’Aosta inventato da Antonio Manzini: “Uno dei personaggi più riusciti del giallo italiano, pieno di difetti, quindi perfetto”. Non è un caso che a Schiavone Camilleri dedichi un paio di citazioni in corso d’opera, fiction nella fiction e doveroso omaggio a chi ne continuerà la presumibile fortuna editoriale. Ma non è qui, né nei difetti reali o presunti che rendono più vicini, dunque umani, i personaggi, o nelle lacune narrative che neanche qui mancano. Puramente sceniche – luci che si spengono senza mai essere accese, per dire – o propriamente concettuali, come la chiusa dell’Altro capo dove l’opera intera si smoscia. Smagliature che tradotte in linguaggio televisivo diventano crepe, ma non per questo tali da rendere meno vendibile il Montalbano di carta o intaccare l’inossidabile bacino d’utenza del Montalbano tivù. Anzi, sono difetti che ne amplificano il successo, lo rendono più riuscito, quindi perfetto, parafrasando Ventavoli. Per i fedeli del clan vigatese – tra cui mi colloco – nuove uscite in libreria e vecchie puntate in tivù sono la stessa cosa, s’attendono con la medesima passione, come s’aspetta una vecchia fiamma o un’amante fresca fresca, a prescindere da delusioni e incomprensioni.
Il punto di Camilleri, la chiave del suo successo, è forse questa, più dello stile o dei personaggi. L’aver evitato i mulini a vento e le secche della letteratura alta e bassa, l’essersi sottratto alla dicotomia tra la narrazione come conoscenza – di sé e del mondo – e come consumo, che nulla chiede se non di passare una mezz’ora di svago con un libro in mano. Tra lettura come pensiero o antipensiero. Camilleri ha saputo evitare questo corto circuito dove s’inzuccano, da sempre, buona parte di scrittori e scriventi. Ha saputo trovare una strada tutta sua che ha fatto scuola e l’ha portato a essere l’autore più venduto (e letto) e, probabilmente, amato del Belpaese. Conosciuto ben oltre, persino da quell’anima pura di Clinton, tra i suoi fan più in vista. Praticamente un genio, oltre che una bella persona. Ecco, di tutto questo si sarebbe potuto e dovuto parlare tra le luci soffuse del festival di Massenzio, nella serata celebrativa della centesima creatura dello scrittore (non chiamiamolo professore, per carità, ché tanta piaggeria non gli si addice). Ma tant’è, il pubblico osannante ha gradito, e lui s’è sperticato in infiniti grazie, sistemandosi la coppola prima d’avviarsi al braccio della fida ancella. Su una strada che ci auguriamo ancora lunga, maestro.
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