Greenpeace in azione nel mar Adriatico presso la piattaforma petrolifera Rospo Mare B, Edison/Eni Belpaese

C’è pure un sito, Trivadvisor, che sulla falsariga del più noto portale di viaggi & ristoro ironizza sulla bellezza d’avere trivelle a vista sui panorami (ancora) mozzafiato d’Italia.

Saranno state le oltre 20mila sottoscrizioni sul portale di Greenpeace, o le 60mila firme raccolte dai Verdi su Change.org, la piattaforma di petizioni online. Insomma, le pressioni dei No Triv a far sì che la Corte costituzionale abbia accolto almeno uno dei sei quesiti referendari – quello sulla durata delle perforazioni – proposti dalla decina di regioni che chiedono lo stop alle trivellazioni. Ma le prospezioni al largo delle nostre coste si faranno, al di là della durata e in barba alla volontà di enti locali, associazioni e atenei. Oltre 200 soggetti che sotto la sigla No Triv da anni combattono contro «una vergogna e una follia», per dirla come Michele Emiliano, presidente della regione Puglia. Ex magistrato d’area Pd, capintesta nella battaglia contro il premier del suo partito per un via libera nel decreto Sblocca Italia che oltre ai rischi ambientali non tiene conto delle ripercussioni per l’industria ittica e il turismo.

Parole, le sue, a cui fanno eco quelle del presidente del Consiglio regionale della Basilicata,  Piero Lacorazza, anche lui in quota Pd, che parla di «importante passo avanti» e «vittoria degli enti locali» a difesa della costituzione. Sullo stesso lato della barricata il presidente leghista del Veneto, Luca Zaia, dichiara che «i cittadini potranno dire no a una sciagura». Uno schieramento e una vittoria costituzionale bipartisan, quindi, fronte ai quali l’ad Eni (che sulle piattaforme petrolifere ha più di un interesse in ballo), Claudio Descalzi, intervistato sul tema da Lucia Annunziata (a libro paga Eni per diversi anni sulla rivista Oil) ribatte: «Non capisco i No Triv. Il gas è il fiume del futuro. Sono tutti contenti quando si trova il gas in Egitto, per portarlo in Italia. Ma se lo troviamo a casa nostra, non si è contenti».

Della strategicità del petrolio di casa nostra è evidentemente convinto il governo, che dopo aver puntato sull’oro nero nostrano nel piano energetico nazionale corre ai ripari preparando l’ennesima revisione al decreto Sblocca Italia per disinnescare l’unico referendum approvato dalla Consulta, con l’intento di evitare il ricorso alle urne in primavera, assieme alle amministrative. Di contro, diversi consigli regionali si preparano a presentare alla Corte costituzionale un conflitto d’attribuzione con lo stato per due dei referendum bocciati, già lunedì 25: sul piano aree delle attività estrattive e sulla durata dei titoli, con l’obiettivo di eliminare le proroghe, su cui i governi regionali vogliono avere voce in capitolo. Vada come vada, la battaglia referendaria sull’unico quesito possibile è appena all’inizio e il quorum è tutt’altro che a portata di mano.

Il referendum andrebbe a impedire alle concessioni presenti e future entro le 12 miglia marine dalla costa di durare sine die, fino a esaurimento degli eventuali giacimenti, stabilendo invece un tempo massimo di sfruttamento. Referendum o no, oltre le 12 miglia (una ventina di chilometri) e in terraferma tutto resta com’è e la corsa all’oro nero italiano un sogno (o un incubo) invariato. En passant, può essere utile ricordare che la querelle nasce nel 2010. Quando, sull’onda dell’emozione per l’esplosione della piattaforma Deepwater Horizon della Bp nel Golfo del Messico, l’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo vieta le attività petrolifere lungo la fascia costiera, portando il limite di sfruttamento da 5 miglia (poco meno di 10 chilometri) a 12 (oltre una ventina). Ma due anni dopo il ministro allo Sviluppo economico, Corrado Passera, condona tutto e sblocca le autorizzazioni concesse fino a quell’anno con il decreto detto appunto Sblocca Italia, convertito in legge nel 2014.

Più del 20% del Mediterraneo è in concessione all’industria dei combustibili fossili. Entro il 2030 la produzione di gas offshore dovrebbe essere quintuplicata, soprattutto nell’area orientale del bacino. Così, dal progetto Ombrina, al largo dei trabucchi di San Vito, in Abruzzo – dove la giunta, sfilandosi, si è rimangiata la volontà del consiglio – alle Tremiti, è tutto un pullulare di zone da perforare & trivellare. Anche con tecniche invasive quali l’air gun o il fracking (onde d’aria o d’acqua sparate a pressione nel sottosuolo). Un fiorire di concessioni a compagnie per lo più estere – Global Med, Petroceltic, Schlumberger – a prezzi stracciati. Un paio di migliaia di euro l’anno per un venticinquennio che il sindaco delle Tremiti, Antonio Fentini, accoglie caustico: «Se servono a risanare il bilancio dello stato, ben vengano».

Oltre al dono natalizio ai petrolieri di 400 chilometri quadri vista Tremiti, le autorizzazioni del Mise, il ministero dello Sviluppo economico, ne concedono altri 8.800, da Pantelleria al Golfo di Taranto. Nel complesso, in Italia i permessi di ricerca per idrocarburi sono oltre un centinaio e riguardano un’area di 36.462 chilometri quadrati, in gran parte sulla terraferma. Come Campania e Lombardia messe assieme, sottolineano gli ambientalisti. Che denunciano come questo non debba essere un paese per fossili dalla vista corta e dalla vita inquinata, ma un Belpaese dove puntare su energie rinnovabili, per salvare il salvabile e in nome di uno sviluppo alternativo, reale e possibile. Difficile dargli torto.


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