Vittoria scontata al premio Strega per Sandro Veronesi con Il colibrì. Grazie anche al suicidio in casa Einaudi lo scrittore di Prato vince l’edizione del 2020, all’insegna del coronavirus
Pietra che rotola non raccoglie sugo. Potrebbe darsi con questo nonsenso, mutuato da un vecchio adagio inglese, il senso della serata al Ninfeo di Villa Giulia che ha consegnato il bottiglione del 74° premio Strega tra le braccia di Sandro Veronesi. Esito di prammatica: più che scontato, diciamolo subito. È la seconda volta che uno scrittore bissa lo Strega. La prima è stata con Paolo Volponi, a metà dei Sessanta e primi Novanta. Altra pasta, altri tempi. Veronesi l’aveva vinto con Caos calmo, bel libro poi divenuto film, valorizzato dall’interpretazione di Nanni Moretti tornato alla recitazione. Come nell’opera dell’ormai lontano 2006, anche stavolta a battere la concorrenza è un libero professionista alle prese col sé, con le sue paturnie più che i problemi altrui. In questo lo scrittore di Prato è fedele al proprio canovaccio e all’indagine introspettiva dei propri personaggi, coi quali scandaglia i riposti anfratti dell’agire e del pensare umano.
Anche in Colibrì, come già nel Caos, protagonista è un maturo benestante, la trama un intreccio famigliare d’interno bellamente borghese con annessi drammi esistenziali e intrecci di corna. Niente di che. D’altra parte non si può troppo pretendere da un libro che prima d’avere la fascetta dello Strega n’aveva una che recitava dimessa: dall’autore di Caos calmo – come se 14 anni fossero passati a buffo – ma insomma. Erano questi iersera i migliori che avevamo, avrebbe detto quel tale, e tant’è. Veronesi vince, anzi stravince sui concorrenti, e lo fa pure meritatamente, confezionando un prodotto editoriale con lo stile avvolgente, a tratti spumeggiante, che gli è proprio.
E non è che gli altri fossero proprio malaccio, tutt’altro. Gianrico Carofiglio, buon secondo con La misura del tempo, una garanzia. Valeria Parrella, giunta terza con Almarina, politicamente extracorretta, un bel nome da spendere. Se l’Einaudi, che ha avuto l’ardire di portarli entrambi nella sestina finale, avesse puntato su un solo purosangue anziché due cavalli di razza, i loro voti sommati avrebbero avuto la meglio sul candidato della Nave di Teseo. S’è rivista, insomma, la scissione che già lo scorso anno ha portato i due tronconi dell’editore, romano e torinese, a scornarsi. Walter Barberis, insigne storico oltre che presidente della casa editrice, tra i neoamici della domenica, dovrebbe farsi qualche domanda su certe scelte in casa Einaudi, funzionali come gli schemi di Fonseca alla Roma.
Forse più che sul podio le scritture più interessanti dell’edizione 2020 sono da ricercare sotto. A partire da Daniele Mencarelli, romano de Ariccia, che dal ponte dei suicidi e dall’ex manicomio locale imbastisce Tutto chiede salvezza (Mondadori): una storia che intende perimetrare – parola sua – l’animo umano. Una storia in parte autobiografica che ha conquistato il premio Strega giovani. Chiudono altri due autori più o meno noti, Gian Arturo Ferrari con una solida vicenda del dopoguerra, Ragazzo italiano (Feltrinelli), e Jonathan Bazzi con Febbre (Fandango) che strizza l’occhio all’ex male del secolo, soppiantato dal Covid, con un’altra vicenda semibiografica. E veniamo alle note dolenti.
Alla surrealtà – unica forma di realtà contemporanea, per dirla come Echaurren – di un’edizione all’insegna della pandemia mediatica. Le riprese dal loggione, come negli anni Cinquanta, senza la folla caciarona e inelegante dei radical chic der ninfeo, le toccatine di gomito anziché gli abbracci, le immancabili bavarole pendule ai lati delle bocche dai sorrisi stirati di sponsor e cronisti. Antonio Scurati più tetro che mai, a dare lettura dei voti come la conta dei morti in pieno boom da coronavirus. Un’allegria che si tagliava con la motosega. Pure Veronesi, notevolmente imbolsito, s’è guardato bene dal tracannare il liquoraccio datogli in collo, saggiandolo appena.
Tutto questo, insomma, era la nota nuova, e stonata, accanto alla vittoria d’un editore minore, ma già gigante nei salotti buoni letterari, che si fa beffe dello squadrone Mondadori e delle sue corazzate. Di nuovo, ancora, l’opinabile scelta di trasformare la storica cinquina in sestina. Anche qui Giovanni Solimine, presidente della fondazione Bellonci, dovrebbe farsi qualche domanda e ripristinare le regole del gioco per ritrovarne il filo. Ché forse lo Strega deve tornare alle origini per farsi di nuovo interessante. Ammesso che la letteratura abbia ancora diritto di parola, di questi tempi. Ché pietra che rotola non raccoglie sugo, come detto, e premio che rotola non ci pigli gusto.
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