A dispetto di chi lo definisce “out”, fuori moda, è un presente antichissimo quello in cui ci trasporta Giuliano Vangi. Di parche parole ma ben vispo al vernissage che ha inaugurato il 19 ottobre la sua personale al Macro di Roma, il decano degli scultori italiani – nato a Barberino sul Mugello 83 anni fa, trasferitosi a 3 a Firenze e attivo da molto nel suo studio di Pesaro – o si ama o si odia, tertium non datur. O si apprezza o si detesta la sua cifra stilistica che unisce alla figurazione (a cui è giunto dopo gli esordi astratti e il suo ritorno dal Brasile, dove ha lungamente vissuto) un modo di lavorare la materia alla maniera dei classici. Con una perizia e una policromìa che ha pochi eguali tra i coèvi.
Nessun supporto materico è estraneo al suo fare: dalla creta al marmo, dal bronzo al ferro, passando per le leghe di nichel e il titanio che ricopre l’esterno del Guggenheim e sta cercando di dominare; quale sia l’elemento nel quale tuffa le mani, duplice è il senso di marcia e uno l’obiettivo. «Ciò che conta non è riprodurre ma rappresentare», confida ad Alberto Fiz nel bel catalogo Silvana unito alla mostra romana.
Rappresentare, dunque. E cosa? Alla domanda è facile dare una risposta proprio grazie alla mostra curata da Gabriele Simongini e allestita dall’architetto Mario Botta, suo buon amico da un quindicennio, con la quale Vangi torna a Roma dopo quasi vent’anni. Nei due capannoni all’ingresso di Testaccio è racchiuso appunto l’ultimo ventennio dei suoi lavori, gran parte monumentali. Opere che mostrano appieno le due direzioni verso cui si muove la poetica dell’artista toscano: da un lato l’uomo a una dimensione, marcusianamente deprivato di libertà, ignoto a sé stesso, solipsistico. Dove la solitudine è più che una dimensione esistenziale: uno spazio dell’anima, anche per sfuggire al vociare e al clangore odierno. Ma anche un luogo dove l’amore e la bellezza sono oasi dove riparare tra i marosi della vita. L’altra, di contro, è esattamente speculare. Una dimensione dove è l’uomo sociale, ma più spesso antisociale, a prevalere. Così, nelle sue mani s’abbozzano e prendono forma gli orrori dell’oggi, la violenza intrinseca all’homo homini lupus, le sue pulsioni più incontrollate, le frustrazioni che ne minano l’esistere.
Tutto ciò è ben visibile in Katrina (2014), dove un’umanità dolente che esercita il proprio dominio sulla natura è beffata dalla natura stessa nei tragici cataclismi come l’uragano omonimo che ha devastato New Orleans nove anni fa. In Veio (2010), dove un moderno centauro in elmo etrusco s’appresta a invadere la pacata campagna, novello barbaro, a bordo d’una vera Triumph rimodulata dall’artista e con un arto a sdoppiarsi, a riprova della volontà ghermitrice. Così nel realismo dell’indignados Duemilaundici (2013), a ricordo delle proteste mosse dalla Spagna; in quello, agghiacciante, del decapitato per mano di due jihadisti in C’era una volta (2005) o nell’altro di Stazzema (2008), a rievocare l’eccidio nazifascista. Così, ancora, negli imponenti graniti Persona e Ulisse, come in Ragazzo che guarda (2003), dove un giovane, pugni serrati, osserva emblematicamente il vuoto innanzi a sé, derubato del futuro dai padroni del vapore. Uniti a questi, un ciclo di lavori recentissimi (La bruma del mattino, L’uomo), sorta di altorilievi dove scultura e pittura si fanno dialogo. Fino a Ragazza con capelli biondi (2014), dove un tiglio dipinto assume le vesti d’una giovane e si fa inno all’amore, a riprova che Omnia vincit amor, per dirla come Virgilio. È qui, dove la materia di Vangi si vena di mito e poesia che la sua contemporaneità vola alta sopra ogni cosa. A farsi amare, sopra ogni dubbio. Vangi, opere 1994-2014, Macro Testaccio, Roma, fino al 18 gennaio; www.museomacro.org.
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