Per le generazioni di studenti delle superiori che hanno studiato la storia sui suoi testi, ma anche per quelli che si sono limitati a scarabocchiarne la copertina rossa per un trentennio, era un’istituzione. Per molti era un grande storico, un barone in senso culturale se non calviniano. Per gli altri, uno di quelli che hanno egemonizzato in senso letteralmente gramsciano la cultura italiana del dopoguerra. Rosario Villari, barone della storiografia sedicente marxista, se n’è andato dalla casa di Cetona, nel senese, portandosi appresso le sue 92 primavere.
Calabrese di Bagnara, voleva essere poeta e scrittore – esordì con prose e poemi sul Politecnico di Vittorini – gli toccò fare lo storico. Giunto al comitato centrale del Pci in forza del suo impegno nella riforma agraria in favore dei contadini, deputato comunista negli anni caldi del terrorismo, gli toccò stare in mezzo, tra quelli che buscano le palle dell’ordine e le sassate della rivoluzione, per dirla come André Gide. Restando però innamorato fino all’ultimo di una certa idea di popolo e di progresso. Come quando, presentando l’ultima fatica all’università cosentina della sua Calabria, rivendicava per i povericristi che avevano sfidato il malgoverno del re di Spagna, malretti da Masaniello e Genoino, d’aver dato l’abbrivio a una storia mai davvero perdente. La stura a un sogno di libertà ancora inesploso.
Tre edizioni dagli anni ‘60, trent’anni sui banchi finché nel ‘94, giunto il Cavaliere al soglio, decise che bastava così, la storia poteva (doveva) scriversi diversamente. Niente più spazio al sociale, basta coi partiti di classe e i movimenti di piazza, l’aria tirava altrove e chiunque odorasse di sinistra sapeva di muffa. Rosario muffoso non era, anzi piuttosto brioso a paragone di certi storici coèvi e d’una storiografia incomprensibile ai più, stopposa già all’incipit. Eppoi il suo era un marxismo all’acqua di rose, distante anni luce dai maestri di scuola anglosassone, marxisti doc quali Perry Anderson o Eric Hobsbawm (con cui il fratello Lucio, anch’egli storico e di otto anni più giovane, polemizzò). Più vicino, ma con minore abilità narrativa, a fecondi conoscitori delle cose d’Italia quali Paul Ginsborg o Denis Mack Smith, scomparso a luglio.
Soprattutto, Villari era e restava un intellettuale organico a un mondo venuto giù col muro di Berlino e che d’intellettuali e partiti vuol fare a meno. Un mondo altro, dove quel sogno di libertà, quella rivoluzione sostenuta dal popolo a cui aveva dedicato i suoi sforzi migliori, resta di là da venire. Ma nei rigurgiti d’insofferenza al centralismo degli stati nazionali, ai moti di Catalogna, di Fiandra e d’altrove, oggi come allora l’occhio dello storico dovrà posarsi ancora ché la storia, in fondo, non gira che su sé stessa.
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